Ho letto commenti vergognosi su SILVIA.
La vita di SILVIA non ci appartiene, può praticare la religione che vuole, pregare nella lingua che vuole, vestirsi come ritiene opportuno.
L'ITALIA è un paese LAICO e la nostra COSTITUZIONE parla chiaro.
Certo non le perdonano il sorriso e la sua felicità ora.
ORA è bene fare SILENZIO e dare a SILVIA e alla sua famiglia tempo per elaborare tutto questo.
Ho letto questa mattina sulla Stampa, un articolo di Domenico Quirico
pure lui sequestrato per 5 mesi, dal 6 giugno 2013 all'8 settembre dello
stesso anno, credo che tutti lo dovrebbero leggere.
LA PRIGIONE IN UN ABITO VERDE ISLAM
Le donne prigioniere della jihad, vittime dei ricatti nel nome di dio.
Dio, come pesa quel barracano verde, come ci annaspiamo dentro. È come
se lo gonfiasse tutto quello che in questi mesi interminabili Silvia
Romano ha attraversato, come se avesse voluto portarli con sé, la
prigionia, la violenza del sequestro, i segni dei nuovi indemoniati che
ritengono che tutto sia permesso non più perché dio non esiste ma anzi
proprio perché, per loro, il suo esistere li rende fanatici. In un
vestito che non ha voluto lasciare dietro, che ha voluto esplicitamente
come simbolo, c’è il mondo dell’islamismo radicale con i suoi codici le
sue parole d’ordine i territori segreti l’incubo dei predicatori che
sanno ispirare l’animo alla follia, (ah poveretti, voi non sapete quanto
sono abili in questo), la sua manovalanza e suoi gerarchi.
Gli
uomini di Al Shabaab, le loro opere criminali lo impregnano, ne fanno
sentire la esplicita presenza in ogni piega. La seguono, non l’hanno
liberata. Distanza e vicinanza.
L’immagine di Silvia ritornata,
della sua giovinezza raggiante e minacciata, i suoi occhi sfavillanti,
la sua bocca che corre dietro alle parole, agli abbracci, l’abito verde,
come un illusionista, la moltiplica senza fine: la figura smarrita in
una camera di fata morgana.
Naturalmente si potrebbe tacere. Non
parlarne, non scriverne per discrezione o per pudore. Il linguaggio è
sacro non si devono mai pronunciare parole alla leggera. Le parole fanno
paura, talvolta: che cosa sono? Opera divina o diabolica? La
conversione, il matrimonio con uno dei carcerieri: portarsi dentro le
rivelazioni, le conferme come un veleno.
Accanto a una parola,
una sola, vera, nuda, fremente di fraternità, una parola con la
circolazione del sangue dentro, bisogna dire l’essenziale, allora,
niente di superfluo.
C’è quell’abito che pesa. Lei ha voluto
indossarlo, ci condanna e ci coinvolge. Non possiamo voltargli le
spalle. Si offre allo sguardo di ognuno. Inganna o conferma? Ci
costringe a ricordare che chi ha subito un sequestro nel tempo purtroppo
senza via di uscita della jihad vive inevitabilmente in più di un
mondo, non può ordinare al passato di spegnersi, invocare l’avvenire per
illuminarlo. Significa far rivivere dentro di sé, non nei verbali delle
procure, frammenti di esistenza, illuminare volti e avvenimenti, scelte
fatte durante la prigionia, con una luce che non può purtroppo come per
noi essere bianca o nera. Non può far scendere la sabbia che ricopre il
volto delle cose, combattere l’oblio, scacciare la Morte.
E poi
il nome. Conosco il rito dell’offerta della conversione: per averlo
vissuto. Comincia con una proposta, gentile: quella di cambiare
identità, di assumere un nome musulmano. Allucinante complessità del
fanatico. Sconcertante impenetrabilità di personaggi a doppio, triplo
fondo. Non gli basta tenerti in pugno, barattarti per denaro. Vogliono
la tua resa, la tua anima. Non è un rito formale, piccole mercanzie da
sacrestia islamica, è un obbligo, a cui credono sinceramente: salvare un
miscredente dal peccato, portarlo alla vera fede, accrescere di una
unità il paradiso dei puri, dei giusti. Che doppia vittoria! Poi lo si
potrà vendere, sfruttare, possedere. Senza rimorso.
Nessuno ti
dice che così la tua condizione di vittima, di prigioniero cambierà, che
in quanto musulmano non subirai più violenze. Che sopravviverai. Forse
ti libereranno… e allora…fuggire…forse, chissà. Ma ti accorgi
immediatamente che l’abbandonare il nome, anzi gettarlo via come una
cosa sporca, è l’equivalente, oh quanto più forte, del restare nudo, del
lasciare i vestiti che ti hanno tolto subito dopo il sequestro. Sei
debole, senti mancarti il terreno sotto i piedi, precipiti verso il
fondo del trabocchetto, non sai neppure tu come ti devi chiamare. Sai
che se dici sì, scivoli via da te stesso: obbligatoriamente. Adesso non
hai più nome che non sia quello che loro ti hanno imposto, ogni volta
che ti chiamano devi percorrere nella tua mente uno spazio, per capire
che quel nome sei tu. Poi viene la proposta di pronunciare la preghiera,
la dichiarazione di fede.
Ma l’idea di mentire, del prendersi
gioco dei tuoi carcerieri, salvarsi con la riserva mentale, ingannarli?
Sarebbe lecito, in fondo. Pensieri che partorisce la notte. Che non
potrai disinvoltamente gettare via. Ma con dio non si scherza,
soprattutto quando hai vicino di cella il dolore.
Cerchi la via
di scampo. E se fosse proprio in questo dio in cui credono di credere i
carcerieri? Un dio senza angoscia nella mente, senza incertezza, senza
dubbio, senza un elemento di disperazione. Non si parli di sindrome di
Stoccolma, del legame capovolto che si crea con chi ti fa del male.
Semplicemente non esiste. Quello che cerchi, che sogni è avere un po’ di
quella stanchezza felice che provano i convalescenti. Anche un dio
implacabile e senza indulgenza può andare bene, ti può scorrere addosso
come un balsamo. Il tuo, se lo avevi, sembra aver scelto il silenzio, ha
perso la partita.
E poi: donna prigioniera della jihad. Si fa
quasi fatica a parlarne, dà sofferenza: le terribili vedove del
Califfato, Antigoni cieche dell’odio, che impugnano i figli come
manodopera della rivincita.
L’adultera lapidata. O le jazide
vendute come schiave al mercato, innocenti prostitute della guerra
santa. Nella retorica della jihad non c’è posto per le donne, è un mondo
di giovani guerrieri che costruiscono il loro paradiso insanguinato. Ma
nella ipocrisia dei mercanti sanguinari di dio quante donne: kamikaze,
produttrici di martiri, riposo del guerriero. Sequestrate.
Chi
esce da un rapimento ha soltanto la sua memoria, l’esser rimasto vivo, i
gesti che ha compiuto o non ha compiuto in una dimensione che, non
bisogna dimenticare mai, è quella della violenza, del ricatto. Se gliela
rifiutiamo questa memoria, qualunque sia, ditemi: che cosa gli resta?
Da La Stampa, Domenico Querico