viva la pheega

martedì 12 maggio 2020

0 Ho letto commenti vergognosi su SILVIA.


Ho letto commenti vergognosi su SILVIA.
La vita di SILVIA non ci appartiene, può praticare la religione che vuole, pregare nella lingua che vuole, vestirsi come ritiene opportuno.
L'ITALIA è un paese LAICO e la nostra COSTITUZIONE parla chiaro.
Certo non le perdonano il sorriso e la sua felicità ora.
ORA è bene fare SILENZIO e dare a SILVIA e alla sua famiglia tempo per elaborare tutto questo.



Ho letto questa mattina sulla Stampa, un articolo di Domenico Quirico pure lui sequestrato per 5 mesi, dal 6 giugno 2013 all'8 settembre dello stesso anno, credo che tutti lo dovrebbero leggere.

LA PRIGIONE IN UN ABITO VERDE ISLAM
Le donne prigioniere della jihad, vittime dei ricatti nel nome di dio.

Dio, come pesa quel barracano verde, come ci annaspiamo dentro. È come se lo gonfiasse tutto quello che in questi mesi interminabili Silvia Romano ha attraversato, come se avesse voluto portarli con sé, la prigionia, la violenza del sequestro, i segni dei nuovi indemoniati che ritengono che tutto sia permesso non più perché dio non esiste ma anzi proprio perché, per loro, il suo esistere li rende fanatici. In un vestito che non ha voluto lasciare dietro, che ha voluto esplicitamente come simbolo, c’è il mondo dell’islamismo radicale con i suoi codici le sue parole d’ordine i territori segreti l’incubo dei predicatori che sanno ispirare l’animo alla follia, (ah poveretti, voi non sapete quanto sono abili in questo), la sua manovalanza e suoi gerarchi.

Gli uomini di Al Shabaab, le loro opere criminali lo impregnano, ne fanno sentire la esplicita presenza in ogni piega. La seguono, non l’hanno liberata. Distanza e vicinanza.

L’immagine di Silvia ritornata, della sua giovinezza raggiante e minacciata, i suoi occhi sfavillanti, la sua bocca che corre dietro alle parole, agli abbracci, l’abito verde, come un illusionista, la moltiplica senza fine: la figura smarrita in una camera di fata morgana.

Naturalmente si potrebbe tacere. Non parlarne, non scriverne per discrezione o per pudore. Il linguaggio è sacro non si devono mai pronunciare parole alla leggera. Le parole fanno paura, talvolta: che cosa sono? Opera divina o diabolica? La conversione, il matrimonio con uno dei carcerieri: portarsi dentro le rivelazioni, le conferme come un veleno.

Accanto a una parola, una sola, vera, nuda, fremente di fraternità, una parola con la circolazione del sangue dentro, bisogna dire l’essenziale, allora, niente di superfluo.

C’è quell’abito che pesa. Lei ha voluto indossarlo, ci condanna e ci coinvolge. Non possiamo voltargli le spalle. Si offre allo sguardo di ognuno. Inganna o conferma? Ci costringe a ricordare che chi ha subito un sequestro nel tempo purtroppo senza via di uscita della jihad vive inevitabilmente in più di un mondo, non può ordinare al passato di spegnersi, invocare l’avvenire per illuminarlo. Significa far rivivere dentro di sé, non nei verbali delle procure, frammenti di esistenza, illuminare volti e avvenimenti, scelte fatte durante la prigionia, con una luce che non può purtroppo come per noi essere bianca o nera. Non può far scendere la sabbia che ricopre il volto delle cose, combattere l’oblio, scacciare la Morte.

E poi il nome. Conosco il rito dell’offerta della conversione: per averlo vissuto. Comincia con una proposta, gentile: quella di cambiare identità, di assumere un nome musulmano. Allucinante complessità del fanatico. Sconcertante impenetrabilità di personaggi a doppio, triplo fondo. Non gli basta tenerti in pugno, barattarti per denaro. Vogliono la tua resa, la tua anima. Non è un rito formale, piccole mercanzie da sacrestia islamica, è un obbligo, a cui credono sinceramente: salvare un miscredente dal peccato, portarlo alla vera fede, accrescere di una unità il paradiso dei puri, dei giusti. Che doppia vittoria! Poi lo si potrà vendere, sfruttare, possedere. Senza rimorso.

Nessuno ti dice che così la tua condizione di vittima, di prigioniero cambierà, che in quanto musulmano non subirai più violenze. Che sopravviverai. Forse ti libereranno… e allora…fuggire…forse, chissà. Ma ti accorgi immediatamente che l’abbandonare il nome, anzi gettarlo via come una cosa sporca, è l’equivalente, oh quanto più forte, del restare nudo, del lasciare i vestiti che ti hanno tolto subito dopo il sequestro. Sei debole, senti mancarti il terreno sotto i piedi, precipiti verso il fondo del trabocchetto, non sai neppure tu come ti devi chiamare. Sai che se dici sì, scivoli via da te stesso: obbligatoriamente. Adesso non hai più nome che non sia quello che loro ti hanno imposto, ogni volta che ti chiamano devi percorrere nella tua mente uno spazio, per capire che quel nome sei tu. Poi viene la proposta di pronunciare la preghiera, la dichiarazione di fede.

Ma l’idea di mentire, del prendersi gioco dei tuoi carcerieri, salvarsi con la riserva mentale, ingannarli? Sarebbe lecito, in fondo. Pensieri che partorisce la notte. Che non potrai disinvoltamente gettare via. Ma con dio non si scherza, soprattutto quando hai vicino di cella il dolore.

Cerchi la via di scampo. E se fosse proprio in questo dio in cui credono di credere i carcerieri? Un dio senza angoscia nella mente, senza incertezza, senza dubbio, senza un elemento di disperazione. Non si parli di sindrome di Stoccolma, del legame capovolto che si crea con chi ti fa del male. Semplicemente non esiste. Quello che cerchi, che sogni è avere un po’ di quella stanchezza felice che provano i convalescenti. Anche un dio implacabile e senza indulgenza può andare bene, ti può scorrere addosso come un balsamo. Il tuo, se lo avevi, sembra aver scelto il silenzio, ha perso la partita.

E poi: donna prigioniera della jihad. Si fa quasi fatica a parlarne, dà sofferenza: le terribili vedove del Califfato, Antigoni cieche dell’odio, che impugnano i figli come manodopera della rivincita.

L’adultera lapidata. O le jazide vendute come schiave al mercato, innocenti prostitute della guerra santa. Nella retorica della jihad non c’è posto per le donne, è un mondo di giovani guerrieri che costruiscono il loro paradiso insanguinato. Ma nella ipocrisia dei mercanti sanguinari di dio quante donne: kamikaze, produttrici di martiri, riposo del guerriero. Sequestrate.

Chi esce da un rapimento ha soltanto la sua memoria, l’esser rimasto vivo, i gesti che ha compiuto o non ha compiuto in una dimensione che, non bisogna dimenticare mai, è quella della violenza, del ricatto. Se gliela rifiutiamo questa memoria, qualunque sia, ditemi: che cosa gli resta?

Da La Stampa, Domenico Querico

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