Gli uomini che hanno lottato contro il fascismo e contro qualsiasi
autorità vanno ricordati, e non per commemorare il 25 aprile che è una
delle vergognose farse istituzionali di oggi. Quella data fu il
tradimento degli avvoltoi che hanno guadagnato sulla morte di quelli che
credevano in un cambiamento rivoluzionario sociale e permanente. Sta a
noi imparare dalle esperienze passate e portare avanti quel
sentimento/azione della lotta contro qualsiasi autorità, seguendo con
l’esempio, la dignità, e con la coerenza i propri principi in una lotta
permanente, imparando dalla loro forza del passato, e dando ognuno il
proprio piccolo contributo. E di non dimenticare mai i compagni che
hanno mantenuto vivo questo bel sentimento.
Tratto dal libro dell’Anarchico Belgrado Pedrini.
“noi fummo i ribelli, noi fummo i predoni”.
Il 25 aprile 1945, quando il regime cadde definitivamente, si scatenò in tutte le forze partigiane, in tutti coloro che prima mal sopportavano il fascismo e poi rischiarono per anni la propria vita sui monti, un reazione di estrema contentezza: fu l’euforia di chi aveva avuto ragione del nemico. Se la rivolta armata aveva creato una situazione decisamente diversa per noi Anarchici, la nuova era, comunque, non ci apparve assolutamente come un paradiso in terra. Si era passati da una forma di capitalismo autarchico ad una forma di capitalismo internazionale . L’ideologia propagandata dal nuovo regime, inoltre, a livello di partiti, era decisamente clericale, nel senso più medioevale del termine. Non voglio esagerare dicendo che i cattolici a Carrara e nella sua regione sono sempre stati una minoranza etnica in via di estinzione, ed i preti non li si è mai potuti vedere e sopportare. Questa nuova realtà democratico-clericale, oltre alla presenza degli americani in casa, stonava, non ci piaceva. Noi Anarchici comunque, iniziammo, già il 26 aprile, ad organizzarci: formammo gruppi e riorganizzammo la Federazione Anarchica Italiana. Passammo dalla clandestinità ad una forma di propaganda e di lotta. A partire dal 26 aprile io ed altri compagni decidemmo di chiudere per sempre la partita con il fascismo a modo nostro. Infatti, dopo la cacciata dei tedeschi io non avevo nessuna intenzione di dimenticare. Che si facesse o no la rivoluzione, io avrei fatto la mia. Avrei fatto pagare agli aguzzini, agli affamatori, ai proprietari, tutta la fame, la miseria e la disperazione del fascismo. Volevo perseguitarli come loro avevano perseguitato me e i miei compagni, la mia vendetta sarebbe stata il mio perdono. Ma i nuovi padroni non erano di questo avviso: Pietro Nenni, per esempio, commissario alle epurazioni, non se la prese con pesci grossi, con i pescecani, preferì colpire i ragazzini, i pesciolini, le macchiette di paese, alcuni poveri deficienti che non contavano niente. Grazie a tale mossa lo stato Italiano si ritrovò con la magistratura e con la polizia nuovamente piena di vecchi quadri fascisti. Il procuratore di Genova, per esempio, ben sapeva che noi vittime del fascismo non avremmo perdonato tanto facilmente e tanto “cattolicamente” i fascisti e i loro sostenitori. Immagino che lo stesso procuratore, solo leggendo il mio fascicolo, abbia capito con che individuo aveva a che fare. Per questo io ho passato trentadue anni di carcere. La mia colpa: aver lottato contro il fascismo e averlo “sconfitto”. Fui beccato infatti dai poliziotti della repubblica borghese, nata dalla resistenza, con un agguato. Agguato che organizzarono a La Spezia , dove io stavo dando caccia ai fascisti del 1945. Nell’agguato venni arrestato, ed ero solo. Compagni come Giovanni Zava, che aveva fatto la resistenza a Serravezza e nel Pistoiese, fu arrestato quasi contemporaneamente sempre per gli stessi motivi. L’accusa che pesava su di noi era di aver partecipato ad un conflitto a fuoco nel ‟42, conflitto durante il quale ci aveva lasciato le penne un poliziotto.
Il nostro processo venne celebrato nel 1949, quattro anni dopo la fine della guerra, per la semplice ragione che la maggior parte degli ex partigiani, fino al 1948, era ancora in armi e pensava e sperava in una prossima rivoluzione sociale. La magistratura borghese-papalina pensò bene, quindi, di evitare di far processi come il mio in quei momenti troppo caldi del dopo Resistenza. La sicura presenza al processo di partigiani, nei quali lo spirito della resistenza era ancora vivo, avrebbe potuto condizionare i giudizi e i risultati di procedimenti aperti nei confronti di ex partigiani come me. Nel 1949, la polizia aveva ormai riacquistato un pieno potere di controllo ed aveva riorganizzato il suo tallone di ferro su rivoluzionari ed ex resistenti. Quindi, magistrati e poliziotti sicuri di non subire rappresaglie e prese di posizione, decisero di celebrare con calma i processi pendenti, fra cui il mio. Fui condannato dapprima all’ergastolo, poi la pena mi fu commutata a trent’anni. Per inciso, devo dire che durante il processo si dimostrò che il poliziotto morto nel conflitto a fuoco non fu ucciso da me. Il proiettile rinvenuto nel suo cadavere era una 7,65 ed io all’epoca possedevo due pistole calibro 9. Quando capii, che poteva essere stato uno dei miei compagni, quello che si era rifugiato in tempo all’estero, mi autodenunciai durante la fase istruttoria con una lettera indirizzata al presidente del tribunale. Lo feci perché il mio compagno aveva moglie e tre figli, mentre io era solo ed era quindi un male minore che ci restassi io, per trent’anni in galera. E poi, soprattutto, la responsabilità politica del gruppo era mia, ed era quindi giusto che davanti al nemico pagassi io per tutti. Non credevo però che sarei invecchiato in carcere. Ero un partigiano ed avevamo appena vinto.
Belgrado Pedrini, nato a Carrara il 5 maggio 1913; morto a Carrara l'11 febbraio 1979.
Ⓐ Walter Ranieri Ⓐ
Tratto dal libro dell’Anarchico Belgrado Pedrini.
“noi fummo i ribelli, noi fummo i predoni”.
Il 25 aprile 1945, quando il regime cadde definitivamente, si scatenò in tutte le forze partigiane, in tutti coloro che prima mal sopportavano il fascismo e poi rischiarono per anni la propria vita sui monti, un reazione di estrema contentezza: fu l’euforia di chi aveva avuto ragione del nemico. Se la rivolta armata aveva creato una situazione decisamente diversa per noi Anarchici, la nuova era, comunque, non ci apparve assolutamente come un paradiso in terra. Si era passati da una forma di capitalismo autarchico ad una forma di capitalismo internazionale . L’ideologia propagandata dal nuovo regime, inoltre, a livello di partiti, era decisamente clericale, nel senso più medioevale del termine. Non voglio esagerare dicendo che i cattolici a Carrara e nella sua regione sono sempre stati una minoranza etnica in via di estinzione, ed i preti non li si è mai potuti vedere e sopportare. Questa nuova realtà democratico-clericale, oltre alla presenza degli americani in casa, stonava, non ci piaceva. Noi Anarchici comunque, iniziammo, già il 26 aprile, ad organizzarci: formammo gruppi e riorganizzammo la Federazione Anarchica Italiana. Passammo dalla clandestinità ad una forma di propaganda e di lotta. A partire dal 26 aprile io ed altri compagni decidemmo di chiudere per sempre la partita con il fascismo a modo nostro. Infatti, dopo la cacciata dei tedeschi io non avevo nessuna intenzione di dimenticare. Che si facesse o no la rivoluzione, io avrei fatto la mia. Avrei fatto pagare agli aguzzini, agli affamatori, ai proprietari, tutta la fame, la miseria e la disperazione del fascismo. Volevo perseguitarli come loro avevano perseguitato me e i miei compagni, la mia vendetta sarebbe stata il mio perdono. Ma i nuovi padroni non erano di questo avviso: Pietro Nenni, per esempio, commissario alle epurazioni, non se la prese con pesci grossi, con i pescecani, preferì colpire i ragazzini, i pesciolini, le macchiette di paese, alcuni poveri deficienti che non contavano niente. Grazie a tale mossa lo stato Italiano si ritrovò con la magistratura e con la polizia nuovamente piena di vecchi quadri fascisti. Il procuratore di Genova, per esempio, ben sapeva che noi vittime del fascismo non avremmo perdonato tanto facilmente e tanto “cattolicamente” i fascisti e i loro sostenitori. Immagino che lo stesso procuratore, solo leggendo il mio fascicolo, abbia capito con che individuo aveva a che fare. Per questo io ho passato trentadue anni di carcere. La mia colpa: aver lottato contro il fascismo e averlo “sconfitto”. Fui beccato infatti dai poliziotti della repubblica borghese, nata dalla resistenza, con un agguato. Agguato che organizzarono a La Spezia , dove io stavo dando caccia ai fascisti del 1945. Nell’agguato venni arrestato, ed ero solo. Compagni come Giovanni Zava, che aveva fatto la resistenza a Serravezza e nel Pistoiese, fu arrestato quasi contemporaneamente sempre per gli stessi motivi. L’accusa che pesava su di noi era di aver partecipato ad un conflitto a fuoco nel ‟42, conflitto durante il quale ci aveva lasciato le penne un poliziotto.
Il nostro processo venne celebrato nel 1949, quattro anni dopo la fine della guerra, per la semplice ragione che la maggior parte degli ex partigiani, fino al 1948, era ancora in armi e pensava e sperava in una prossima rivoluzione sociale. La magistratura borghese-papalina pensò bene, quindi, di evitare di far processi come il mio in quei momenti troppo caldi del dopo Resistenza. La sicura presenza al processo di partigiani, nei quali lo spirito della resistenza era ancora vivo, avrebbe potuto condizionare i giudizi e i risultati di procedimenti aperti nei confronti di ex partigiani come me. Nel 1949, la polizia aveva ormai riacquistato un pieno potere di controllo ed aveva riorganizzato il suo tallone di ferro su rivoluzionari ed ex resistenti. Quindi, magistrati e poliziotti sicuri di non subire rappresaglie e prese di posizione, decisero di celebrare con calma i processi pendenti, fra cui il mio. Fui condannato dapprima all’ergastolo, poi la pena mi fu commutata a trent’anni. Per inciso, devo dire che durante il processo si dimostrò che il poliziotto morto nel conflitto a fuoco non fu ucciso da me. Il proiettile rinvenuto nel suo cadavere era una 7,65 ed io all’epoca possedevo due pistole calibro 9. Quando capii, che poteva essere stato uno dei miei compagni, quello che si era rifugiato in tempo all’estero, mi autodenunciai durante la fase istruttoria con una lettera indirizzata al presidente del tribunale. Lo feci perché il mio compagno aveva moglie e tre figli, mentre io era solo ed era quindi un male minore che ci restassi io, per trent’anni in galera. E poi, soprattutto, la responsabilità politica del gruppo era mia, ed era quindi giusto che davanti al nemico pagassi io per tutti. Non credevo però che sarei invecchiato in carcere. Ero un partigiano ed avevamo appena vinto.
Belgrado Pedrini, nato a Carrara il 5 maggio 1913; morto a Carrara l'11 febbraio 1979.
Ⓐ Walter Ranieri Ⓐ