viva la pheega

venerdì 17 febbraio 2017

0 Pratheepa, bambina con il fucile «Cominci a uccidere le prime volte, è terribile, e poi lo fai e basta»

Non posso dimenticare il mio passato. È una cosa mia, mi segue». Pratheepa oggi ha 30 anni e un bambino di tre anni. Pratheepa è stata rapita a quindici anni e costretta a combattere. Lo scenario è lo Sri Lanka degli anni Duemila, durante una guerra civile che ha visto 700 mila vittime dal 1983 al 2009. Pratheepa è a scuola quando i guerriglieri tamil la rapiscono e la trascinano nella jungla a combattere.
«Quando ti prendono, per te la guerra diventa normale. Non ti chiedi più se è giusto o sbagliato, sai solo che devi combattere e dopo un po’ che ci sei in mezzo ti dimentichi che puoi morire. Ti fanno prendere delle medicine, per questo. Cominci a uccidere le prime volte, è terribile, e poi lo fai e basta. Se non ci pensi, se non ti fermi, lo fai e basta», racconta via mail alla 27esima ora.
Come tanti suoi compagni, Pratheepa viene ferita gravemente a un braccio durante i combattimenti. Nel frattempo un medico italiano, Massimiliano Fanni Canelles, in missione in Sri Lanka dopo lo tsunami che si è abbattuto sull’isola nel 2004, entra in contatto con Paratheepa che porta in Italia per farla operare. Ora la storia di Pratheepa è diventata un libro «La bambina con il fucile» scritto da Susanna De Ciechi pubblicato dall' @uxilia onlus.Qui di seguito ne pubblichiamo un estratto.

Adesso era ancora una Tigre, sparava perfino meglio di una volta. Il suo corpo... era successo qualcosa. C’erano bruciature e il rilievo di tanti tagli. Cordoncini rosso scuro come le vene sulle gambe delle vecchie. Lei non sapeva cosa fosse accaduto. Il capo e i compagni la trattavano come al solito; qualcuno a volte faceva battute che lei non capiva. Ridevano e ogni discorso finiva con la solita litania: ora si fidavano di lei ed erano sicuri che non sarebbe mai più scappata. Le era rimasto un senso di vergogna. Certe notti Pratheepa faceva un sogno strano. Piangeva e tremava nel sonno, tutta sudata. Era nuda su un tavolo in una stanza spoglia e il comandante le veniva vicino con qualcosa in mano. Sorrideva con fare bonario. «Devi imparare che non ci puoi fregare» diceva in tono gentile, poi le infilava qualcosa nella vagina, pungeva, faceva male. Subito dopo c’era la scossa. Lei si svegliava gridando e le compagne le tappavano la bocca, le davano una sberla per riportarla al presente. Era un sogno, anzi un incubo. Uno dei tanti. Tutto qui. Però, nonostante il terrore, il disgusto, Pratheepa non aveva più cercato un’occasione di fuga. Adesso stava meglio. Si era adattata, indurita. Prendeva sempre le medicine, un’abitudine di cui non poteva fare a meno prima di un combattimento, il resto non la toccava. Uccideva quando doveva. Aveva anche un ragazzo che le stava dietro. Le piaceva, ma in qualche modo teneva lui e se stessa a distanza da qualcosa per cui non c’era spazio. Ogni tanto pensava che non avrebbe mai avuto l’occasione di fare altro che uccidere. Togliere la vita le era diventato del tutto indifferente. Il conflitto sarebbe durato per sempre. Magari per mesi non succedeva niente di importante. Allora la chiamavano tregua, ma era sempre la stessa guerra. Bastava una minaccia anche senza fondamento o una lezione da dare a qualcuno che magari stava dalla tua parte, però aveva scantonato. Lei e gli altri andavano, facevano quel che dovevano senza metterci il pensiero. Automi programmati per ferire, per uccidere uomini, donne, bambini. Gli ordini andavano eseguiti. Sempre. Allora tornavano utili gli occhi velati di sudore, la testa intorpidita dalla droga, il corpo indurito dalle torture. 53 Non c’era altro. Non esisteva una realtà diversa per quanto riguardava la pace, quella era un’invenzione. Pratheepa aveva allontanato i ricordi più cari e quando un odore, un colore, una voce o l’idea di un sentimento la riportava indietro, a prima di quella mattina in biblioteca, lei si obbligava a fare dietrofront. Per sopravvivere restava nel presente. Ormai le riusciva naturale. Respirava lì e in quel momento, i pensieri imbozzolati in una nebbia che non doveva mai diradarsi; glielo raccomandava l’istinto. La ragione doveva tacere. La vita sarebbe andata avanti, il suo corpo ci stava dentro, ma non lei. Per questo andava bene la droga. Qualunque cosa pur di stare fuori dalla sua testa. Il tempo era una distanza, la stessa che aveva percorso da quando era stata presa nella biblioteca della scuola del suo villaggio. Non sarebbe mai tornata indietro, al suo nido, e lo sapeva.

 Marta Serafini

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