Dopo la guerra che Israele scatenò
contro la popolazione di Gaza nel 2008, Stefano Nahmad (la cui famiglia
subì le persecuzioni naziste) scrisse queste parole: «hai fatto una
strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo che li
hanno usati come scudi. Non so pensare a nulla di più infame […] li hai
chiusi ermeticamente in un territorio, e hai iniziato ad ammazzarli con
le armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri
avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse giorno, per
colpirli meglio. Ma 688 morti palestinesi e 4 israeliani non sono una
vittoria, sono una sconfitta per te e per l’umanità intera».
La guerra che Israele conduce contro
il popolo palestinese non è finita, non finisce mai. Continua ogni
giorno, e ogni giorno uccide, distrugge, depreda. Negli ultimi mesi è
esplosa una povera Intifada, chiamata l’Intifada dei coltelli. Si
manifesta con azioni suicidarie compiute da uomini donne, anziani e
giovani che il razzismo quotidiano del gruppo dirigente di Israele ha
reso a tal punto disperati da cercare la morte per strada, nel tentativo
generalmente fallimentare di accoltellare uno dei superarmati agenti
dell’esercito di Israele.
Come ogni anno si avvicina il giorno
della Memoria, e come ogni anno mi preparo a parlarne con gli studenti
della scuola in cui insegno. Insegno in una scuola serale per
lavoratori, in gran parte stranieri. È un ottimo osservatorio per capire
quel che accade nel mondo. Qualche anno fa, in occasione di questa
ricorrenza, leggemmo brani dal libro Se questo è un uomo di Primo
Levi. Avevamo parlato molto della questione ebraica, e della storia del
popolo ebreo dalle epoche lontane al ventesimo secolo. Proposi che
tutti scrivessero un breve testo sugli argomenti di cui avevamo parlato.
Claude D, un ragazzo senegalese di circa venti anni, piuttosto pigro ma
dotato di vivacissima intelligenza concluse il suo lavoro con queste
parole: «Ogni anno si fanno delle cerimonie per ricordare lo sterminio
degli ebrei, ma gli ebrei non sono i soli che hanno subito violenza.
Perché ogni anno dobbiamo stare lì a sentire i loro pianti quando altri
popoli sono stati ammazzati ugualmente e nessuno se ne preoccupa?».
Questa frase mi colpì, e decisi di proporla alla discussione della
classe, in cui oltre Claude c’erano cinque italiani due marocchini un
peruviano una brasiliana, un somalo, due ragazze romene una ucraina e
due russi. L’opinione di Claude era quella di tutti. Sia ben chiaro:
nessuno mise in dubbio la verità storica dell’Olocausto, neppure Yassin,
un ragazzo marocchino appassionato alla causa palestinese e sempre
pronto a criticare con durezza Israele. Tutti avevano seguito con
attenzione e partecipazione la lettura delle pagine di Primo Levi. Però
tutti mi chiedevano: perché non si fanno cerimonie pubbliche dedicate
allo sterminio dei rom, dei pellerossa, o allo sterminio in corso dei
palestinesi? Claude a un certo punto uscì fuori con una frase che non
potevo contestare: perché nessuno ha pensato a un giorno della memoria
dedicato all’olocausto africano? Pensai ai milioni di suoi antenati
deportati dagli schiavisti, pensai all’irreparabile danno che questo ha
prodotto nella vita dei popoli del golfo d’Africa occidentale, e
conclusi il discorso in maniera che a tutti apparve risolutiva (vorrei
quasi dire salomonica): «Nel giorno della memoria si ricorda l’Olocausto
ebraico perché attraverso questo sacrificio si ricordano tutti gli
Olocausti sofferti dai popoli di tutta la terra».
Ammesso che la parola «identità»
significhi qualcosa, e non lo credo, per me l’identità non è definita
dal sangue e dalla terra, blut und boden come dicono i romantici
tedeschi, ma dalle nostre letture, dalla formazione culturale e dalle
nostre mutevoli scelte. Perciò io affermo di essere ebreo. Non solo
perché ho sempre avuto un interesse fortissimo per le questioni storiche
e filosofiche poste dall’ebraismo della diaspora, non solo perché ho
letto con passione Isaac Basheevis Singer e Abraham Yehoshua, Amos Oz,
Gershom Scholem e Daniel Lindenberg, ma soprattutto perché mi sono
sempre identificato profondamente con ciò che definisce l’essenza
culturale dell’ebraismo diasporico. Nell’epoca moderna gli ebrei sono
stati perseguitati perché portatori della Ragione senza appartenenza.
Essi sono l’archetipo della figura moderna dell’intellettuale.
Intellettuale è colui che non compie scelte per ragioni di appartenenza,
ma per ragioni universali. Gli ebrei, proprio perché la storia ha fatto
di loro degli apatridi, hanno avuto un ruolo fondamentale nella
costruzione della figura moderna dell’intellettuale e hanno avuto un
ruolo fondamentale nella formazione dell’Illuminismo e della laicità, e
anche dell’internazionalismo socialista.
Come scrive Singer nelle ultime pagine del suo Meshugah,
«la libertà di scelta è strettamente individuale. Due persone insieme
hanno meno libertà di scelta di quanto ne abbia una sola, le masse non
hanno virtualmente nessuna possibilità di scelta». Per questo io sono
ebreo, perché non credo che la libertà stia nell’appartenenza, ma
solamente nella singolarità. So bene che nel ventesimo secolo gli ebrei
sono stati condotti dalla forza della catastrofe che li ha colpiti, a
identificarsi come popolo, a cercare una terra nella quale costituirsi
come stato: stato ebraico. È il paradosso dell’identificazione. I
nazisti costrinsero un popolo che aveva fatto della libertà individuale
il valore supremo ad accettare l’identificazione, la logica di
appartenenza e perfino a costruire uno stato confessionale che
contraddice le premesse ideologiche che proprio il contributo
dell’ebraismo diasporico ha introdotto nella cultura europea.
In Storia di amore e di tenebra scrive
Amos Oz: «Mio zio era un europeo consapevole, in un’epoca in cui
nessuno in Europa si sentiva ancora europeo a parte i membri della mia
famiglia e altri ebrei come loro. Tutti gli altri erano panslavi,
pangermanici, o semplicemente patrioti lituani, bulgari, irlandesi
slovacchi. Gli unici europei di tutta l’Europa, negli anni venti e
trenta, erano gli ebrei. In Jugoslavia c’erano i serbi i croati e i
montenegrini, ma anche lì vive una manciata di jugoslavi smaccati, e
persino con Stalin ci sono russi e ucraini e uzbeki e ceceni, ma fra
tutti vivono anche dei nostri fratelli, membri del popolo sovietico».
Il mio punto di vista sulla questione
mediorientale è sempre stato lontano da quello dei nazionalisti arabi.
Avrei mai potuto sposare una visione nutrita di autoritarismo e di
fascismo? E oggi potrei forse sposare il punto di vista
dell’integralismo religioso che pervade la rabbia dei popoli arabi e
purtroppo ha infettato anche il popolo palestinese nonostante la sua
tradizione di laicismo? Proprio perché non ho mai creduto nel principio
identitario non ho mai provato particolare affezione per l’idea di uno
stato palestinese. I palestinesi sono stati costretti
all’identificazione nazionale dall’aggressione israeliana che dal 1948
in poi si è manifestata in maniera brutale come espulsione fisica degli
abitanti delle città, come cacciata delle famiglie dalle loro
abitazioni, come espropriazione delle loro terre, come distruzione della
loro cultura e dei loro affetti. «Due popoli due stati» é una formula
che sancisce una disfatta culturale ed etica, perché contraddice l’idea –
profondamente ebraica – secondo cui non esistono popoli, ma individui
che scelgono di associarsi. E soprattutto contraddice il principio
secondo cui gli stati non possono essere fondati sull’identità, sul
sangue e sulla terra, ma debbono essere fondati sulla costituzione,
sulla volontà di una maggioranza mutevole, cioè sulla democrazia.
Pur avendo un interesse intenso per
l’intreccio di questioni che la storia ebraica passata e recente pone al
pensiero, non ho mai scritto su questo argomento neppure quando
l’assedio di Betlemme o il massacro di Jenin o l’orribile violenza
simbolica compiuta da Sharon nel settembre del 2000 o i bombardamenti
criminali dell’estate 2006 provocavano in me la stessa ribellione e lo
stesso orrore che provocavano gli attentati islamici di Gerusalemme o di
Netanya o gli omicidi casuali di cittadini israeliani provocati dal
lancio di razzi Qassam.
Non ho mai scritto nulla (mi dispiace
doverlo dire), perché avevo paura. Come ho paura adesso, non lo
nascondo. Paura di essere accusato di una colpa che considero ripugnante
– l’antisemitismo. So di poter essere accusato di antisemitismo a causa
della convinzione, maturata attraverso la lettura dei testi di Avi
Shlaim, e di cento altri studiosi in gran parte ebrei, che il sionismo,
discutibile nelle sue scelte originarie, si è evoluto come una
mostruosità politica. Pur avendo paura non posso però più tacere dopo
aver discusso con lo studente Claude.
Per quanto io sappia che il sionismo
va compreso nel contesto della persecuzione di cui gli ebrei sono stati
vittime per secoli, non posso ignorare che l’ideologia sionista si è
evoluta come nazionalismo colonialista, è causa di infinite ingiustizie e
sofferenze per il popolo palestinese, e rischia, nel lungo periodo, di
rivelarsi un pericolo mortale per lo stesso popolo ebraico.
La violenza sistematica che lo stato
di Israele ha scatenato negli ultimi sessant’anni alimenta la bestia
antisemita che sta diventando maggioritaria nel subconscio collettivo.
Poiché non si può affermare che il nazionalismo sionista è una politica
sbagliata che produce effetti criminali senza essere accusati di
antisemitismo, molti non lo dicono, ma non possono impedirsi di
pensarlo. Dato che non è possibile affermare a viso aperto che uno stato
che si definisce ebraico e discrimina i cittadini sulla base
dell’appartenenza religiosa è uno stato integralista, allora molti lo
tacciono ma non possono impedirsi di pensarlo.
Aprendo la discussione sulle parole
dello studente Claude, ho scoperto che gli altri studenti, italiani e
marocchini, romeni e peruviani, che pure nel loro svolgimento avevano
trattato la questione secondo gli stilemi politicamente corretti,
costretti ad approfondire il ragionamento e a far emergere il loro vero
sentimento, finivano per identificare il governo colonialista di Israele
con il popolo ebraico e quindi a ripercorrere la strada che conduce
verso l’antisemitismo. Considerando criminale e arrogante il
comportamento dello stato di Israele, identificandosi spontaneamente con
il popolo palestinese vittimizzato, finivano inconsapevolmente per
riattivare l’antico riflesso anti-ebraico. Proprio la rimozione e il
conformismo che si coltivano nel giorno della memoria stanno producendo
nel subconscio collettivo un profondo antisemitismo che non si confessa e
non si esprime. Perciò credo che occorra liberarsi della rimozione e
denunciare il pericolo che il sionismo aggressivo rappresenta
soprattutto per il popolo ebraico.
Si avvicina il 27 gennaio, che sarà
anche quest’anno il giorno della memoria. Come potrò parlarne agli
studenti della mia scuola? Non c’è più Claude, ma ci sono altri ragazzi
africani e arabi e slavi ai quali non potrò parlare dell’immane violenza
che colpì il popolo ebraico negli anni Quaranta senza riferirmi
all’immane violenza che colpisce oggi il popolo palestinese. Se tacessi
questo riferimento apparirei loro un ipocrita, perché sanno quel che sta
accadendo. E come potrò tacere le analogie tra l’assedio di Gaza e
l’assedio del Ghetto di Varsavia? È vero che gli ebrei uccisi nel ghetto
di Varsavia nel 1943 furono 58.000 mentre i morti palestinesi sono per
il momento solo poche migliaia. Ma come dice Woody Allen i record sono
fatti per essere battuti. La logica che ha preparato la ghettizzazione
di Gaza (che un cardinale cattolico ha definito «campo di
concentramento») non è forse simile a quella che guidò la ghettizzazione
degli ebrei di Varsavia? Non vennero forse gli ebrei di Varsavia
costretti ad ammassarsi in uno spazio ristretto che divenne in poco
tempo un formicaio? Non venne forse costruito intorno a loro un muro di
cinta della lunghezza di 17 chilometri di tre metri di altezza
esattamente come quello che Israele ha costruito per rinchiudere i
palestinesi? Non venne agli ebrei polacchi impedito di uscire dai
valichi che erano controllati da posti di blocco militari?
Per motivare la loro aggressione che
uccide quotidianamente centinaia di bambini e di donne, i dirigenti
politici israeliani denunciano i missili Qassam che in un decennio hanno
causato dieci morti (tanti quanti l’aviazione israeliana uccide in
mezz’ora). È vero: è terribile, è inaccettabile che il terrorismo di
Hamas colpisca la popolazione civile di Israele. Ma questo giustifica
forse lo sterminio di un popolo? Giustifica il terrore indiscriminato,
la distruzione di una città? Anche gli ebrei di Varsavia usarono
pistole, bombe a mano, bottiglie molotov e perfino un mitra per opporsi
agli invasori. Armi del tutto inadeguate, come lo sono i razzi Qassam o i
coltelli da cucina. Eppure nessuno può condannare la difesa disperata
degli ebrei di Varsavia.
Cosa posso dire, dunque, nel giorno
della memoria? Dirò che occorre ricordare tutte le vittime del razzismo,
quelle di ieri e quelle di oggi. O questo può valermi l’accusa di
antisemitismo?
Se qualcuno vuole accusarmi a questo
punto non mi fa più paura. Sono stanco di impedirmi di parlare e quasi
perfino di pensare ciò che appare ogni giorno più evidente: che il
sionismo aggressivo, oltre ad aver portato la guerra e la morte e la
devastazione al popolo palestinese, ha stravolto la stessa memoria
ebraica fino al punto che nelle caserme israeliane sono state trovate
delle svastiche, e fino al punto che cittadini israeliani bellicisti
hanno recentemente insultato cittadini israeliani pacifisti con le
parole «con voi Hitler avrebbe dovuto finire il suo lavoro».
Proprio dal punto di vista del popolo
ebraico il sionismo aggressivo del gruppo dirigente di Israele è un
pericolo mortale. La violenza degli insediamenti, la violenza
dell’operazione Piombo Fuso del 2008 e dei bombardamenti su Beirut del
2006 è segno di demenza suicida. Israele ha vinto tutte le guerre dei
passati sessant’anni e può vincere anche la prossima guerra contro una
popolazione disarmata. Ma la lezione che ne ricavano centinaia di
milioni di giovani islamici che assistono ogni sera allo sterminio dei
palestinesi fa nascere in loro un odio che oggi si manifesta nelle forme
del terrorismo islamista. Israele può sconfiggere militarmente Hamas.
Può vincere un’altra guerra come ha vinto quelle del 1948 del 1967 e del
1973. Può vincere due guerre tre guerre dieci guerre. Ma ogni sua
vittoria estende il fronte dei disperati, il fronte dei terrorizzati che
divengono terroristi perché non hanno alcuna alternativa. Ogni sua
vittoria approfondisce il solco che separa il popolo ebraico da un
miliardo e mezzo di islamici. E siccome nessuna potenza militare può
mantenere in eterno la supremazia della forza, i dirigenti sionisti
aggressivi dovrebbero sapere che un giorno o l’altro l’odio accumulato
può dotarsi di una forza militare superiore, e può scatenarla senza
pietà, come senza pietà da anni si manifesta l’odio israeliano contro la
popolazione indifesa di Gaza.